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martedì 24 gennaio 2012

Flessibilità e disoccupazione

Il duo Giavazzi-Alesina non finisce mai di non-stupire. Da anni continuano a sostenere tesi macroeconomiche fallaci, smentiti sistematicamente da qualsiasi evidenza empirica ma soprattutto dalla devastazione che le ricette pseudo-economiche (soprattutto in materia di occupazione) da loro condivise ed avvalorate hanno portato. L'altro ieri, sulle righe del Corriere della Sera un editoriale a doppia firma dal titolo "Giovani e articolo 18, le verità scomode) riproponeva un loro (e soprattutto dei loro editori) cavallo di battaglia ovvero l'attacco al mercato del lavoro, nello specifico all'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, articolo che tutela questi ultimi nel caso di licenziamento senza giusta causa (nelle imprese con almeno 15 dipendenti).

L'offensiva parte ovviamente con un attacco a coloro che si oppongono all'abrogazione del suddetto articolo, attacco portato con l'ormai sperimentata tecnica dell'attribuzione di opinioni assurde agli oppositori in maniera tale da rendere meno credibile la loro posizione e più facile la disinformazione nei riguardi dei lettori. Così secondo Giavazzi-Alesina chi è contrario all'abolizione dell'articolo 18 è "chi pensa che più flessibilità significhi più disoccupazione". Ovviamente nessuno mai ha pensato o sostenuto questo argomento, ma al duo di pseudo-economisti le vere critiche alla troppa flessibilità sul lavoro non interessano, gli basta smentire un'ovvia inesattezza per poter archiviare la discussione. Discussione che invece è molto più ampia e controversa di quanto il Corriere della Sera vorrebbe far credere ai propri lettori. Innanzitutto l'opposizione all'abrogazione dell'articolo 18 si basa su due presupposti diversi: uno di natura etica (che non affrontiamo qui) ed uno di natura economica, quest'ultimo ben lontano però da quello attribuito dal duo di pseudo-economisti. La critica di natura economica che viene sollevata non è affatto che "più flessibilità uguale più disoccupazione" ma che la flessibilità sul lavoro è una misura pro-ciclica, aiuta le imprese ad assumere in tempi di espansione ed a licenziare facilmente nella successiva crisi. Rende così più volatile l'attività economica, ampliando l'ampiezza del ciclo economico ed esentando le imprese dal pianificare un modello di sviluppo sostenibile nel medio-lungo periodo. Tutto questo viene quindi visto negativamente dai critici, non solo sotto l'aspetto etico, ma anche sotto l'aspetto meramente economico. Quindi una discussione seria dovrebbe affrontare questi temi, e non quello montato ad arte dal duo Giavazzi-Alesina.
I due dopo aver fintamente smontato le critiche, smontando un falso argomento, fanno fede al titolo dell'editoriale e passano ad elencare le "verità scomode" delle quali sarebbero i detentori. La prima delle quali è che "Nei quindici anni passati il mercato del lavoro italiano è diventato molto più flessibile: il risultato è che (almeno fino all’inizio della crisi, che comunque passerà) molte più persone lavorano". La diminuzione del tasso di disoccupazione verificatosi in Italia prima della crisi viene quindi messa in stretta relazione con l'introduzione di una legislazione più flessibile sul mercato del lavoro. Ovviamente questa tesi non solo non viene supportata da nessun dato, ma neppure da alcuna speculazione teorica di alcun tipo. Perchè? Perchè è una falsità, e come tale è impossibile accompagnarla ad alcun dato in suo supporto. Anzi i dati esistenti la smentiscono in maniera abbastanza eloquente. Esiste infatti un indice dal nome Employment Protection Strictness compilato dall'OCSE, il quale misura il livello di rigidità della legislazione in materia di occupazione, mettendo questo indice in relazione con il tasso di disoccupazione i risultati smentiscono il duo Giavazzi-Alesina, praticamente senza appello.


Nel grafico qui sopra sono evidenziati le differenze fatte registrare dal tasso EPS e dal tasso di disoccupazione negli anni precendenti alla "crisi, che comunque passerà", e nello specifico dal 1996 al 2007. Da notare che è stato preso come punto di partenza il 1996 in quanto è l'anno precedente alla prima riforma del lavoro in Italia, il cosidetto "pacchetto Treu" del 1997; il che dovrebbe aiutare la dimostrazione della tesi Giavazzi-Alesina cosa che invece non si verifica neanche in quell'intervallo di tempo. Da sinistra a destra sono elencati i 28 paesi osservati, in ordine da quelli che hanno fatto registrare una maggior flessibilità del mercato del lavoro fino a quei paesi che invece hanno in questi anni irrigidito il mercato del lavoro. Secondo la tesi Giavazzi-Alesina i paesi che hanno introdotto più flessibilità avrebbero dovuto far registrare una maggior discesa del tasso di disocuppazione, ma come si può notare dal grafico questo non è avvenuto. Infatti sulla destra del grafico esistono paesi che hanno irrigidito il mercato del lavoro (Nuova Zelanda, Polonia, Ungheria, Irlanda, Regno Unito e Francia) e che hanno visto il tasso di disoccupazione scendere notevolmente, in alcuni casi in misura addirittura superiore o simile all'Italia (Ungheria, Nuova Zelanda). Sulla sinistra invece troviamo paesi che hanno introdotto flessibilità e che hanno visto ridursi il tasso di disoccupazione in misura ridotta (Germania, Grecia, Slovacchia) o addirittura hanno assistito ad un aumento della stessa (Corea). Ad ulteriore riprova del fatto che non esista assolutamente nessuna relazione tra flessibilità e tasso di disoccupazione sono poi i casi evidenti nel grafico di paesi che hanno avuto variazione molto simili del tasso di rigidità del lavoro ma diametralmente opposte del tasso di disoccupazione, tra i quali l'esempio più eclatante è rappresentato a centro grafico dalla coppia Turchia-Spagna. Oppure il fatto che economie europee come Italia, Germania, Spagna, Francia abbiano avuto comportamenti differenti in materia di legislazione sul lavoro (più flessibilità in Italia e Germania, nessuna modifica sostanziale in Spagna e Francia) e risultati assolutamente indipendenti dalle modifiche introdotte, tanto è vero che il tasso di disoccupazione è sceso notevolmente in Spagna mentre in Germania è rimasto invariato, ed è sceso in Francia in misura di poco inferiore all'Italia.
Successivamente nell'editoriale il duo Giavazzi-Alesina descrive tutte le disfunzioni del mercato del lavoro italiano, il dualismo giovani-anziani, l'eccessiva precarietà e le sue conseguenze anche sul sistema pensionistico contributivo, l'assenza di ammortizzatori sociali per alcuni tipologie contrattuali ecc ecc. Ovviamente anche qui i due si "dimenticano" che in questi anni tutte le riforme del lavoro hanno avuto il loro totale appoggio e sono andate nella direzione auspicata dalle teorie neo-liberista da loro sempre sostenute.
Arriva poi la seconda "verità scomoda" secondo i due pseudo-economisti ovvero che "In un momento di grande incertezza, come quello che stiamo attraversando, gli imprenditori sono restii ad assumere con l’inflessibilità dell’articolo 18 proprio perché sono insicuri sul futuro della loro azienda. Quindi è proprio in un momento difficile che l’articolo 18 preoccupa gli imprenditori. Quando tutto va bene e si è ottimisti, assumere per la vita è facile per tutti.". I due affermando questo però omettono di specificare che al momento esistono già contratti di varie tipologie che non implicano un'assunzione a tempo indeterminato da parte dell'azienda e che quindi un ipotetico imprenditore che abbia la volontà di assumere ha già oggi tutti gli strumenti per poterlo fare senza impegnarsi in una conferma futura del lavoratore. La tesi che quindi gli imprenditori non assumano a causa dell'articolo 18 è un'altra ovvia falsità alle quali il duo ci ha abituati in questi anni.


Per giudicare la flessibilità o meno del mercato del lavoro in Italia è inoltre utile questo secondo grafico, riguardante il tasso EPS aggiornato al 2008, che riporta da sinistra a destra i paesi con maggiore ridigità del mercato del lavoro. Dal grafico risulta evidente che l'Italia non ha affatto un mercato del lavoro più rigido che altri paesi, si trova infatti in media a livello mondiale ma tra i più flessibili a livello europeo, avendo un indice inferiore a tutti i paesi dell'eurozona, Irlanda esclusa.

 
Questo terzo grafico mostra invece l'indice OCSE che indica la difficoltà di accesso da parte dei lavoratori ai sussidi di disoccupazione, tenendo conto dei requisiti che essi debbono avere per accedervi. La situazione dei lavoratori in Italia risulta essere tra le peggiori assieme a Turchia e Portogallo, i quali però sono in cima alla classifica dei paesi meno flessibili come si nota dal secondo grafico. Molti lavoratori italiani si trovano quindi in una situazione tra le peggiori, da una parte un mercato del lavoro flessibile rispetto alla media degli altri paesi, dall'altra un sistema di ammortizzatori sociali tra i più poveri. Il fatto che alcuni lavoratori siano protetti dall'articolo 18 ed altri non lo siano, non significa affatto quindi che esso debba essere abrogato perchè ciò porterebbe solamente a peggiorare la situazione di quei lavoratori che ancora godono di una tutela.
Tutto ciò evidenzia che il vero problema per un imprenditore al momento, in Italia, non è la legislazione sul mercato del lavoro, ma le prospettive economiche future incerte: senza una prospettiva di vedere remunerato il proprio investimento nessun imprenditore è disposto ad assumere personale, qualsiasi sia la legislazione esistente. Ed al contrario di quello che Giavazzi-Alesina vorrebbero far credere, gli ostacoli non arrivano dal lato dell'offerta ma dal lato della domanda. La vera relazione non è tra occupazione e flessibilità ma tra occupazione e reddito, quando ques'ultimo si riduce, agisce negativamente sull'occupazione per mezzo di una diminuzione dei consumi. Le politiche utili in questo caso sono l'esatto contrario di quelle proposte dal duo, sono politiche di sostegno al reddito delle famiglie e di ridistribuzione di una maggiore quota di reddito a loro favore.

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